Il salone affrescato al primo piano è tra tutti gli ambienti della Casa del Pingone quello che ci offre più indizi sulla storia del palazzo. I muri su cui sono intervenuti i restauratori della R.i.c.t. Tauro guidati da Marina Locandieri e la supervisione dell’architetto Paola Salerno e della dott.ssa Cristina Mossetti della Soprintendenza hanno rivelato di essere molto antichi, probabilmente contemporanei alla torre medioevale. In facciata non ci sono tracce di sopraelevazione e la muratura della torre stessa è immorsata in quella della manica principale verso il cortile. Lo scalone è invece costruito in una fase successiva, forse a fine Cinquecento, e per realizzarlo è stato demolito l’intero lato sud-est della torre che oggi funge da elemento distributivo ai diversi piani della Casa.

La sovrapposizione dei vari strati di intonaco ritrovati sulle pareti del salone al primo piano rivela almeno due periodi principali tra quelli più antichi: il primo risalente alla fine del XV inizi del XVI secolo, epoca in cui tutto l’edificio aveva finestre incorniciate da decori in cotto che sono state ritrovate sotto uno spesso strato d’intonaco novecentesco e lasciate visibili in facciata: e insieme ai modellati in cotto si sono ritrovati anche frammenti di intonaco rosso con filettature bianche (forse ad imitazione di liste in laterizio), che ha suggerito l’attuale colorazione della facciata dell’edificio. L’intonaco cinquecentesco del salone in diversi punti risvolta al livello dei vecchi davanzali ed è assente per circa trenta centimetri sopra al pavimento, il che lascia supporre che in un primo momento l’imposta del solaio tra il piano terreno e il primo piano fosse leggermente più alta. Anche il pavimento del piano terreno sembrerebbe essere stato rialzato lasciando ipotizzare che il piano delle botteghe fosse inizialmente così alto da essere soppalcato.

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Intonaco interno del salone pricipale XV sec
Facciata con le cornici di cotto

La decorazione pittorica di questo primo livello di intonaco era costituita da una fascia di circa sessanta centimetri di altezza raffigurante un velario  che si ripete per tutto il perimetro della sala, sormontata da riquadri paesaggistici separati da paraste dipinte con motivi a candelabra  richiamanti le lesene del vicino Duomo di Meo del Caprino che verosimilmente ne hanno fornito l’ispirazione.

Tra questi elementi architettonici che si prolungano nelle travi del ricco solaio ligneo policromo (restaurato da Tiziana Sandri) si apre  un paesaggio di colline e monti in lontananza dipinto a  trompe l’oeil  con alcuni gruppi di case. Purtroppo non si distingue molto di più ed è stato scelto di non rimuovere gli strati sovrapposti di intonaco (dove questi sono ancora integri) costretti, così, a rinunciare ad eventuali altri dettagli decorativi che forse avrebbero arricchito questi brani di paesaggio della Torino del Cinquecento. Inciso nell’intonaco è stato ritrovato un nome, forse un Belardo, magari un abitante della casa o l’autore del dipinto.

Se lo stile tipicamente tardo medioevale della torre e delle cornici delle finestre ci porta a datare
la prima costruzione della manica che affacciava sul Cardo Maximus della città quadrata al XV secolo su fondazioni preesistenti, il secondo livello di intonaco presente nel salone ci illumina su una importante ristrutturazione dell’edificio difficilmente databile con certezza.

Potrebbero essere gli anni in cui la casa è stata abitata da  Emanuele Filiberto Pingone e quindi su questo intervento si è concentrato il nostro interesse.

La suggestione che nella casa sia vissuto Pingone, importante e potente figura della corte sabauda, ci viene offerta, oltre che dalla tradizione popolare, dall’unica fonte documentaria costituita dal romanzo storico-letterario di Luigi Gramegna del 1906 nel quale il nostro palazzo viene indicato come la residenza dello storico personaggio. Gli affreschi a grottesche della fascia alta a ridosso del solaio delle pareti sono in parte dipinti sui muri di tamponamento delle finestrature medioevali per cui possiamo immaginare che il nuovo ciclo pittorico sia contemporaneo o comunque successivo ad una più radicale riplasmazione architettonica e stilistica dell’edificio. È naturale pensare che questa ristrutturazione sia successiva alla scelta di Torino come sede della capitale del ducato avvenuta nel 1563 e alla conseguente nuova centralità del piccolo insediamento piemontese. Una prima ipotesi è che Filiberto Pingone il quale arriva a Torino assieme alla corte, e vi morirà nel 1582, sia stato il committente di questa importante ristrutturazione. I soggetti del ciclo di affreschi sono ispirati alla classicità pagana, come è tipico delle grottesche diffuse in Italia lungo tutto il XVI sec. anche le grottesche di Casa del Pingone sono infarcite di rimandi e riferimenti a simbologie e figure del mondo alchemico ed esoterico. Diverse fonti, peraltro, attribuiscono al Pingone conoscenza e perizia in campo alchemico e certamente la biblioteca del Duca stesso era ricca di volumi e scritti dei grandi esoteristi europei. È significativo che la corte sabauda, nonostante la rigida adesione ai dettami della controriforma, tolleri una cultura artistica piuttosto permeabile a reminescenze e influssi rinascimentali neoplatonici ed ermetici. 

Secondo questa ipotesi di datazione le grottesche di Casa del Pingone sarebbero una testimonianza unica a Torino del clima culturale dell’Europa di fine Cinquecento ed offrirebbero uno spaccato complementare alla politica repressiva attuata dal Duca verso le spinte riformatrici specie nelle valli alpine e nei territori vicini alla Svizzera.

Una seconda ipotesi, peraltro non necessariamente in contraddizione alla presenza di Pingone negli
anni della sua permanenza a Torino, colloca il ciclo pittorico mezzo secolo più tardi, successivamente al 1630.

Quest’altra ipotesi è sostenuta dalla presenza nel ciclo dipinto di tre monogrammi superstiti (ma quasi sicuramente ce n’erano anche altri) di cui quello in posizione centrale – recante le iniziali F e T poste sopra il nodo Savoia e sovrastato dalla  corona  marchionale – che ci ha lungamente incuriositi. Questo primo monogramma è composto da una F ed una T.

 

Ricercando nella complessa genealogia dei Savoia ci dobbiamo quindi spostare ai tempi di Tommaso Francesco di Savoia figlio di Carlo Emanuele I e di Caterina Michela d’Asburgo. Tommaso era Marchese di Salussola, Marchese di Bosque e di Chatêllard, Marchese di Racconigi, Conte di Racconigi e Villafranca, Cavaliere dell’Annunziata, Gran Maestro di Francia e soprattutto dal 1620 Principe di Carignano dando così inizio al ramo Savoia Carignano. Nel 1625 Tommaso sposa a Parigi Maria di Borbone da cui l’anno successivo ha la prima di sette figli, Cristina Carlotta che muore alla nascita e a cui potrebbe essere dedicato parte del ciclo pittorico.

Il secondo monogramma tra quelli recuperati è, infatti, costituito da una doppia C incrociata sostenuto da un angioletto che sembra elevarlo al cielo. Quest’ipotesi è sostenuta anche dall’accostamento di una particolare figura, quella di un ermafrodito che stringe nelle mani spighe di grano, seduto su di un sarcofago affiancato da una coppia di corvi: questa interessante iconografia rimanda ad immagini classiche del culto di Cerere, divinità dell’abbondanza e della fecondità oltre che tramite con il mondo degli inferi.

Terracotta consrvata al Museo Nazionale delle Terme di Roma

Il terzo monogramma, più difficile da decifrare, è composto da due o tre lettere che potrebbero essere una C o una G e una M o una V:  un aspetto curioso di questo monogramma, sovrastato come il primo dalla corona marchionale, è che in un primo tempo prevedeva il nodo Savoia che è stato abbozzato (a luce radente se ne vede ancora l’incisione sull’intonaco) ma non realizzato in fase esecutiva. Le lettere individuate potrebbero essere riferite a Caterina Michela d’Asburgo madre di Tommaso Francesco, anche in questo caso le figure che sostengono il monogramma hanno dei chiari riferimenti alla simbologia alchemica con le immagini dell’acquario e dello specchio. È probabile che le parti scomparse del ciclo contenessero altri monogrammi che potrebbero avvalorare la centralità della famiglia del Principe Tommaso e chiarire meglio il senso dell’affresco, ma sembra abbastanza convincente la ricostruzione in considerazione della discendenza in linea diretta delle tre figure riconducibili ai monogrammi. Ipotizzando che le lettere non siano state aggiunte in un momento successivo, l’affresco sarebbe perciò da collocare posteriormente al 1626, data della morte di Cristina Carlotta, in un’epoca in cui lo stile pittorico cosiddetto “Carlo Emanuele I”, se paragonato alla contemporanea decorazione del Castello del Valentino, è ormai al tramonto. Una giustificazione potrebbe essere proprio il desiderio da parte dei principisti filo spagnoli di rimandare alla tradizione per esaltare le virtù di una nobiltà che si richiamava all’Impero e ai tempi non lontani in cui Emanuele Filiberto aveva difeso l’autonomia Sabauda dall’invadenza francese a giustificare una scelta così passatista.

Non abbiamo elementi che ci obblighino a pensare che la riplasmazione architettonica con l’eliminazione delle finestre medioevali e l’abbassamento del solaio tra il primo e il secondo piano sia contestuale al secondo ciclo pittorico, ma è ragionevole pensare che questa riorganizzazione dei livelli sia stata fatta per realizzare un salone aulico importante al piano nobile coerente con la presenza di un membro della famiglia Savoia benché lungamente esule.

Resta comunque aperta anche una ipotesi di compromesso secondo cui le trasformazioni della Casa del Pingone siano state eseguite in più fasi, la prima sotto l’urgenza di dare una immagine più moderna alla capitale e la seconda per arricchire il salone d’onore con un ciclo di affreschi commemorativi.

Un ulteriore ritrovamento che potrebbe avvalorare la collocazione del ciclo pittorico nel terzo decennio del XVII secolo è la testa scolpita che sorregge un balconcino al primo piano sul lato di via Porta Palatina.

Mascherone di Via della Basilica
Fontana di Giaveno

Il mascherone è certamente un elemento di recupero e si trova sulla manica bassa dell’edificio verso via Egidi che è probabilmente stata ricostruita nel XIX sec. Non conosciamo la consistenza dell’edificio preesistente, ma gli scavi archeologici ci dicono che esistevano edifici di diverse epoche precedenti a partire dal periodo romano. Possiamo ipotizzare che, data la dimensione delle fondazioni, almeno alcune porzioni della costruzione fossero sviluppate in altezza e non è da escludersi un cortile più ampio. Il mascherone quasi sicuramente apparteneva ad una fontana che poteva essere all’interno del cortile e come fattura, oltre che come materiale, ricorda il lavoro del piemontese Giacomo Fontana che nel 1622 esegue il ben più imponente mascherone in pietra di Chianocco su commissione del Cardinal Maurizio per adornare il parco abbaziale di Giaveno.

L’importanza della residenza estiva di Giaveno è documentata dalla presenza fin dal 1586 di Carlo Emanuele I e Caterina Michela d’Asburgo per alcuni soggiorni estivi.

La scelta di un artista legato al Cardinal Maurizio potrebbe essere un dato significativo in quanto di tutti i fratelli di Vittorio Amedeo I era quello più vicino a Tommaso Francesco. 

Dopo la morte di Vittorio Amedeo I nel 1637 assume la reggenza la moglie Cristina di Francia in nome del figlio Francesco Giacinto. Dopo appena un anno, Francesco Giacinto muore lasciando il diritto al trono al fratello Carlo Emanuele II ancora bambino che dovrà attendere fino al 1648 per governare. La lotta per la reggenza a quel punto coinvolse i fratelli di Vittorio Amedeo I, Maurizio e Tommaso legati da una politica filo spagnola che nel 1639 occuparono Torino rivendicando il diritto alla reggenza fino al 1642, in contrapposizione ai madamisti che sostenevano Madama Cristina.

La presenza di Giacomo Fontana come scultore di alcuni particolari andati dispersi della Casa del Pingone potrebbe, quindi, essere coerente con un utilizzo seicentesco da parte di esponenti della fazione principista vicini a Tommaso Francesco, se non dello stesso principe nelle sue rare presenze in città.

Testo di Luca Emilio Brancati e Federico De Giuli

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